Storia di un cane.

March 6th, 2012

1997, Bill Clinton presidente degli Stati Uniti. Si parla un po’ ovunque di Buddy, un meraviglioso cucciolo di Labrador color cioccolata. Il First Dog si vede in tv, anche in Italia. Arriva alla Casa Bianca a dicembre di quell’anno. Mi documento, e scopro che quel cane viene anche definito cane-“baby-sitter”, per la sua bontà e capacità di sapere gestire anche i bambini più rognosi. In quel periodo sono fidanzato con A., seconda storia, più calma dopo le turbolenze losangelesine. Vivo in una casa sfitta di mia nonna, con uno splendido giardino di 150 metri quadrati. Il desiderio di avere un cane era una cosa che mi portavo dietro dalle superiori. Ma i miei non vollero mai prendersi questo impegno. Non dimenticherò mai di quando, una volta, raccolsi una trovatella in strada, ma mia madre e mio padre non mi permisero di tenerla. In quell’anno avevo già iniziato a lavorare, mentre studiavo. Insegnavo inglese in una scuola privata. Così, un giorno (ho ritrovato lo scontrino, era il 21 gennaio 1998), dopo essermi confrontato con A., salimmo in auto – Alfa 73 grigio scuro di mio padre – destinazione centro commerciale Sic, all’Eur. Non mi ricordo come venni a sapere dell’esistenza di questo negozio – non avevo ancora internet, c’era il passaparola, fatto di “ho sentito che c’è…”. In vetrina, oltre a cagnetti di taglia piccola, c’era un solo labrador. Color crema. Ma io lo volevo chocolate. Niente da fare. Bisognava ordinarlo, perché di quel colore arrivavano solo dall’Inghilterra. Presi in braccio quello scriciolo di due mesi. Profumava di cucciolo. Ricordo ancora il prezzo: 1.300.000 lire. Il suo nome da pedigree era “Eck”. Ovviamente non mi piaceva. Era nato a Budapest, il 24 novembre del 1997. La mamma si chiamava Fatima, il papà non ricordo (ora lo rileggo nel certificato: Belizar). Tornammo a casa felici. Io guidavo, mentre A. si teneva il pupo in braccio. Era di una dolcezza disarmante. Come tutti i cuccioli, del resto. Il nome lo scelsi in fretta: River. Ero tornato da poco da Los Angeles, e portavo ancora vivo, dentro di me, il ricordo del più noto River Phoenix. E poi mi piaceva l’idea del fiume, della forza, la continuità, la costanza. E, quindi, il primo, vero River sei stato tu.

Il primo anno fu tosto. Io ero spesso fuori, a casa c’era soprattutto A. Non era casa “nostra”, ma era sicuramente il nostro nido. Io fuori per le lezioni, A. che cercava di fargli capire che i bisogni non andavano fatti in casa. Ci mise moltissimo ad impararlo – penso almeno 7/8 mesi. Ricordo che non lo lasciavo mai da solo in giardino, dopo che, un giorno, vidi una signora infilare la mano nel cancello per accarezzarlo. Ero geloso di lui ma, soprattutto, temevo che qualcuno gli potesse dare qualche polpetta avvelenata. Capitava e, purtroppo, capita ancora oggi. Fu grazie al cane che i miei conobbero A. Una volta, dovendo partire, glielo lasciai, visto che anche lui aveva un giardino molto grande. I miei si diedero il cambio con lui, e se lo andarono a prendere a casa. Fu uno dei pochi miei fidanzati che abbiano mai conosciuto. Il cane, intanto, cresceva bene. Testardo, più di me. Maleducato. E affamato, sempre. Una volta io ed A. lo portammo in pineta e lui riuscì a scovare la carcassa di un topo morto. Venne da noi con questa roba in bocca, la coda che gli penzolava tra i denti. Sembrava felice, il puzzone. Se lo mangiò tutto. Il veterinario ci disse che essendo stato vaccinato contro la leptospirosi, non avrebbe avuto problemi.

La storia con A. finì, e io e topo rimanemmo soli. A posteriori, direi che River è stato anche e soprattutto il cane dei miei fidanzati, nel senso che è sempre stato anche un compagno di una “entità-coppia”. Da soli, ci siam sentiti un po’ monchi, entrambi. A un paio di anni, divenuto sempre più discolo, decisi di farlo addestrare. La cifra era proibitiva: 1.500.000 per tre mesi di corso. Fu un disastro totale, nel senso che i diktat dell’allenatore parevano rimbalzargli. O meglio: fingeva di impararli, per poi dimenticarsene il giorno dopo. A me non piacevano i suoi metodi: quando lo tirava con veemenza col collare a strozzo, non riuscivo a guardare. Al termine dell’addestramento, aveva imparato a sedersi. Ma niente di più. In fondo ero felice: non volevo un automa, uno di quei cani che sanno ripetere pure le tabelline. Meglio un coatto di periferia (anzi, un cavallo pazzo, come lo aveva soprannominato la signora che viveva sotto casa dei miei genitori, in seguito alle sue numerose corse casalinghe).

In quel periodo, rischiò anche un brutto incidente. Eravamo a villa Borghese, e come sempre faceva, se ne correva come un folle, senza guardarsi intorno. Colpì una ragazza dietro le ginocchia, facendola cadere in terra, di sedere. Panico. Temevo si fosse rotta qualcosa, anche perché ce ne mise un po’ a rialzarsi. E, invece, tutto ok. Il giorno dopo andai in una compagnia di assicurazione (la Toro) e lo feci assicurare per i danni a terzi: 100.000 lire l’anno, con una copertura di mezzo miliardo di lire. Una garanzia, con una scheggia impazzite al guinzaglio. La sua prima vacanza fuori Roma fu in Umbria, in un agriturismo, sempre con A.. Là ne combinò di tutti i colori. Dal furto delle pantofole nell’alloggio di una coppia di olandesi nostri vicini; alla quasi rottura degli annaffiatori (li mordeva); fino alla quasi rottura di un enorme vetro (non lo aveva visto, e ci corse contro). Era davvero una peste.

Per un periodo tornai a vivere con i miei – a mia nonna serviva la casa. Loro lo trattavano come un altro figlio, viziandolo. Era un nuovo bambino. Fu una tragedia: lo abituarono a salire sul divano, ad abbaiare quando si mangiava, per attirare la nostra attenzione, e un’altra serie di cose scostumate (ah, anche bere dal bidet). L’addestramento si rivelò la più grande bufala della sua vita, un po’ come i prodotti dimagranti che, in quegli anni, Wanna Marchi vendeva in tv. La notte dormiva sempre con me, in camera. Si infilava sotto al letto, e ogni tanto la sua testa spuntava fuori da un telo decorativo che circondava la base.

E’ quando inizio a lavorare come giornalista, che non riesco più a trascorrere molto tempo con lui. Giornate intere fuori – chi fa il freelance, conosce bene quel genere di vita – e rientri stressati. Su una cosa il cane non mi dava mai problemi: gli orari delle uscite, sia la mattina che la sera. Non ha mai pianto all’alba per fare pipì. La domenica sapeva aspettare anche fino alle dodici. Un santo. Quando mi svegliavo, iniziava a fissarmi, come a dire: “daiiii, che mi scappa, però ti aspetto, sbrigati”. In quel periodo, ci fa prendere un brutto spavento: un forasacco gli si infila nel caso. Mentre stiamo facendo la nostra passeggiata, all’improvviso inizia a starnutire. Non smette e a un certo punto inizia anche a sanguinare. Panico. Corsa dal veterinario, che decide di fargli un’anestesia totale, per estrarre il forasacco dal naso. Ricordo la fatica che facemmo io ed A. per metterlo ancora addormentato sul sedile posteriore, facendo attenzione alle zampine. Durante il viaggio inizio ad alzare la testa e guardarci. “Hey, che mi avete fatto?”.

Col lavoro, riesco a potermi permettere un affitto. E’ un monolocale, molto spazioso, una specie di loft, in via di Ripetta. Splendido. Nonostante le dimensioni – circa 40 metri quadrati – stavamo benissimo. Qua conosco M., la mia terza storia. Lui è un tipo da gatti, ma con il topo entra subito in confidenza. Ricordo le passeggiate in via del Corso e piazza del Popolo, ma anche sul Lungotevere: mi sentivo sempre di camminare dentro ad una cartolina. Villa Borghese è a due passi. A dire il vero, non amo scioglierlo libero. Nonostante l’addestramento, un’altra cosa che non ha MAI imparato a fare, è stato tornare quando glielo dicevo. Insomma: era capace anche di attraversare una strada. Una volta – non ricordo esattamente dove – bloccai il traffico: mi misi in mezzo alla strada e urlai STOP, solo perché topo stava facendo il pazzo, zigzagando ovunque. Con M. facciamo la seconda vacanza del topo: sempre in agriturismo (difficile andare altrove…), ma stavolta in Toscana. E’ capodanno. Il cane sembra essere uno dei pochi quadrupedi a non aver paura dei botti. Cammina sereno in strada, mentre quello che, allo scoppio di un petardo, sussulta come una signorina, sono io. La gente si stupisce. E’ un cane solare, attira complimenti, ha sempre voglia di fare le feste, a tutti. Non è assolutamente un cane da guardia: lo capisco quando l’appartamento riceve una visita dei ladri. Rientro dal lavoro alle 20, e trovo la finestra spalancata. Spariti abiti, ma rimasti televisore e pc. Sul tavolo, una scatola di biscotti, mezza consumata: i ladri lo avevano corrotto. Comunque fui felice di trovarlo scodinzolante, in fondo gli avrebbero anche potuto fare del male. Lui non aveva capito proprio nulla. Secondo me voleva dirmi: “Hey, quando non c’eri sono passati dei tizi che mi hanno fatto giocare un po’! Erano così gentili, mi hanno pure dato da mangiare”. In quel periodo, fa prendere un brutto spavento a me ed M.. Correndo dietro ad una boxerina, nei giardini di piazza Augusto Imperatore, si tagliuzza il polpastrello. Quello è il suo secondo intervento in anestesia totale. Si decide di asportarlo. Zampina fasciata, collare della vergogna, e via. Pochi giorni dopo l’intervento, è di nuovo in pista a fare il pazzo. Nel 2004 un altro spavento. Ha una specie di paresi di una parte del muso. Io sono fuori per lavoro, i miei lo portano da un neurologo canino. Nulla di serio, si pensa ad un problema alla tiroide. Il medico prescrive analisi del sangue, ma quando ritorno sta già meglio. La paresi se ne va, e topo è sempre in pista. Per lui, faccio anche una corsa in ospedale il 24 dicembre, poco dopo la mezzanotte: si è spezzato un’unghia, che continua a sanguinare. Gliela strappano, senza anestesia. Ricordo ancora il lamento soffocato. Ma, per fortuna, nulla di più: splendida fascetta rosa a coprire la zampetta. Molto fashion.

Gli anni scorrono veloci. Così veloci, che non mi rendo conto che invecchia. Ma lui è un giovane dentro, sempre. Arrivano L. e la mia ultima storia. Col primo non familiarizza molto – in realtà è L. a starsene un po’ sulle sue. Diciamo che lui non ama i cani, e questi, quando sono di fronte a soggetti diffidenti, tendono a rispondere con l’indifferenza. In realtà, il cane fa amicizia con tutti. E’ affettuoso a prescindere. La sua bontà è disarmante, a tratti anche eccessiva.

Dal monolocale, passo all’attico di piazzale degli Eroi. Grande terrazza, che diventa presto la sua terrazza. Nei periodi in cui non sono fidanzato, e devo partire per l’estero, mi affido a due bravissimi e gentilissimi dog sitter. In 14 anni non l’ho mai e poi mai voluto lasciare in una clinica. Troppo stress. In casa loro vivono meglio il distacco, circondati dai soliti oggetti. Ricordo ancora la mia primissima partenza all’estero: il giorno dopo si ammalò, una brutta bronchite, e per il veterinario i due eventi erano correlati. Quella volta lo avevo lasciato dai miei, li chiamavo più volte al giorno per sapere come stesse. E quando tornavo, era un bagno di saliva con la lingua zuppa.

Di vacanze insieme ne abbiam fatte diverse. Ricordo un’estate al Giglio. Una settimana e un solo grosso spavento. Dopo cena, gli faccio fare un bagnetto, ma dopo aver nuotato per qualche metro, resta incastrato nella rete che delimita la zona dei bambini. Panico: io ho lo stomaco pieno e in spiaggia non c’è nessuno. Il cane è fermo, muove le zampe, ma non riesce ad andare avanti. Decido di spostarmi, mettendomi in diagonale, rispetto a lui: lo chiamo e per fortuna riesce a liberarsi. Abbraccio liberatorio. Qualche minuto dopo, troverà il modo di rubare una ciabatta ad una signora che, a qualche centinaio di metri, era seduta in spiaggia. Farsela ridare è sempre un’impresa. Come quando – agriturismo toscano, quella volta ero con M. – entra in un pollaio e addenta un pollo morto. Sì, morto. Abbiamo tentato in ogni modo di farcelo ridare: sgridandolo, sculacciandolo e, infine, offrendogli cioccolata. Niente da fare. Se l’è mangiata. Chiamo il veterinario, che è molto laconico: “Se il pollo è morto per cause naturali, al cane non succederà nulla”. Per due giorni non mangia, e vomita piume. Ma, per fortuna, si riprende pure stavolta. Con L. andiamo in agriturismo a Umbertide (giornate meravigliose) e, un’estate, all’Isola di Ischia. Quest’ultima volta hotel, camera grande con terrazzo spazioso (ma tanto lui voleva sempre stare con noi): ricordo il fugone, un giorno, verso le piscine, sono riuscito ad afferrarlo pochi metri prima che si tuffasse. Non oso immaginare cosa sarebbe successo.

In casa, la sua posizione preferita, ma molto trasgressiva, è sul letto oppure sul divano. Sa che non lo dovrebbe fare, ma se ne frega. Così, quando non c’è nessuno nella stanza, si mette comodo, per scendere al volo non appena qualcuno lo vede. Che grandissimo paraculo. Rarissime volte, lo facevo sedere tra noi sul divano: ma resisteva poco, perché in tre si stava un po’ scomodi. Negli anni a venire, finisce un’altra volta sul lettino operatorio: una ciste nella zona perianale va rimossa, inizialmente si pensa ad un tumore (ipotesi poi smentita dall’esame istologico). Il veterinario teme che possa essere un tumore. Intervento delicato, non è più un giovincello, gli tengo la zampa mentre gli fa l’anestesia. Il medico ci avvisa: “Più passano gli anni, e più le anestesie sono rischiose”. Tutto bene, sedere nuovo, bau in splendida forma. L’ultima anestesia è per rimuovergli il tartaro dei denti. Intervento necessario (anche io pensavo fosse una cosa estetica), perché nelle sue condizioni, rischiava di dargli problemi anche al cuore. Ricordo un pomeriggio intero a dormire, in salotto, prima che gli effetti del farmaco gli passassero. Era ancora di più adorabile, in quello stato di coccolosità permanente.

L’ultima vacanza fatta con lui, fuori Roma, è al Conero. I viaggi in macchina, con lui, non sono mai faticosi e si comporta sempre bene. Una sola volta – il primo viaggio con A. – ha vomitato in auto. Ah, l’odore delle crocchette rimesse, indimenticabile. Le altre volte è sempre stato un passeggero modello. Ogni tanto guardava fuori dal finestrino, più spesso appoggiava il muso sul sedile di uno dei due, e dormicchiava. Mi rendo conto che è invecchiato, quando, dopo avergli tirato un bastone, lui non riesce a trovarlo. Ha la cataratta, anche se annusa-annusa alla fine al bastone ci arriva. Il fiuto è sempre rimasto ottimo. Del resto, il Labrador, detto anche cane-fogna, deve pur raccattare la roba da mangiare, no? Ah, quante sgridate, in strada. Il rischio delle polpette avvelenate, a Roma, è sempre alto. Ma quando si camminava, la sua testa era china, alla ricerca delle ciotoline che le gattare nascondono sotto le auto per i mici. Sembrava che aspettasse di uscire non per fare i bisogni, ma per aprire la caccia al mangime dei mici.

I primi seri acciacchi legati all’anzianità arrivano nel maggio dell’anno scorso. Problemi alle zampe posteriori – artrosi – e ai reni (non riesce più a trattenere la pipì per una giornata/notte intera). Il veterinario gli prescrive due farmaci: uno per i reni e il cuore (il Fortekor), un altro per le articolazioni (Cosequin). Costo mensile, circa 130 euro. Deve anche cambiare mangime, prendendo solo quello specifico per cani con problemi renali. Un salasso, e mi chiedo come avrei fatto se non avessi avuto uno stipendio che mi permetteva un buon budget per il quadrupede. Dopo qualche mese di cura, sembra stare meglio. Chiaramente va più piano, niente più corse, ma la camminata è da anziano simpatico. Che, ogni tanto, cerca pure di fare il provolone con le cagnette. Capitolo femmine: il topo è vergine. Non mi sono mai messo d’accordo con nessuno, e lui non ha mai mostrato tutta questa volontà di accoppiarsi. Non voglio dire che fosse gay, per carità, anche se coi maschietti si è sempre trovato bene. Rapporti anche burrascosi, qualche ringhiata, ma alla fine amiciforever.

A luglio dell’anno scorso il micio, salvato da un cassonetto insieme a tre fratellini (questi ultimi dati in affidamento a due river-lettori). All’inizio – chi mi segue lo ricorderà – un dramma. Lui gli si avventa contro, ringhiando. Spruzzi di diarrea di micio contro il muro. Poi diventano amici. Inseparabili. Diciamo che è miao a stargli sempre attaccato. A salirgli sopra, facendogli dei massaggini sulla schiena. Lui abbozza. Gli ultimi mesi passano veloci. Topo sta sempre più male. Lo vedo spegnersi, davanti a me. Ma è lo stesso processo di una candela che, dopo aver bruciato tutta la sua esistenza, spegne gradualmente la fiammella. Inutile opporsi, perché la cera sta per finire.

River è stato una spalla. Paziente. Dio quanto è stato paziente. Star dietro agli orari di un giornalista nevrotico, alla sua tormenta vita professionale e, soprattutto, sentimental-sessuale, non è deve essere stato facile. Santo River. Siamo partiti dal giardino enorme, passati per un monolocale, poi l’attico (ah, quanto odiavi quel salotto troppo caldo, eh!), infine l’ultima casa. Hai vissuto questi cambiamenti come delle operazioni necessarie per starmi accanto. A ogni viaggio all’estero che ho fatto, mi hai aspettato. Sia quando ti lasciavo ai dog sitter, che i primi tempi ai miei genitori. Non mi hai mai tenuto il muso, non sapevi cosa volesse dire. Eri sempre felice di rivedermi. Hai conosciuto quattro dei miei cinque fidanzati, più quelli passeggeri. Quando incontravo qualcuno, ascoltavi silenzioso i nostri rendez vous. E chissà se avrai pensato: “Io, invece, non faccio mai sesso”. La gente mi chiedeva come mai ti tenessi nascosto da loro: non era gelosia, è che tu facevi sempre le feste a tutti, e non volevo condividerti con persone che non avrei più rivisto. Se mi chiedevano il tuo nome, per non dire quello vero, ne inventavo sempre uno diverso: il più gettonato era “Sunny”. Detestavi sentirmi litigare con altre persone. Tutte le volte che in casa si discuteva, arrivavi tu, ti piazzavi in mezzo e iniziavi ad abbaiare. Anche l’anno scorso, quando la voce era quella di un anzianotto, non rinunciavi a dire: “Piantatela di litigare, fate la pace”. Non hai mai morso nessuno. Ti saresti lasciato uccidere, pur di mordere. L’autodifesa, per te, era un concetto mai imparato. I tuoi genitori erano buoni come te, è nel Dna della vostra razza. Fessacchiotti amici del mondo intero. A volte potevi essere geloso, ma sempre in maniera soft: capitava quando, in strada, mi fermavo ad accarezzare qualche altro cane. Allora arrivavi, e iniziavi ad annusarlo, a volte anche spostandomi col muso. Ricorda ancora quando ti portavamo fuori in due, e io mi allontanavo un attimo – magari per andare al bancomat – tu ti fermavi, e mi seguivi con lo sguardo.

Avrei voluto scrivere ancora tanto. Mi sarò sicuramente dimenticato di qualche altra tua malefatta. Non smetterò mai di ricordarti. E tu continuerai a vivere accanto a me, anzi, dentro di me. Sarai il ricordo di quell’unico amore incondizionato che una creatura vivente possa mai provare nei confronti di un uomo. Senza mai chiedere nulla in cambio.

Grazie puzzone. La tua ciotola adesso la usa il gatto. Tanto ti veniva sempre a rubare le cosine, e tu lo lasciavi fare, farloccone ;)

(grazie, a chi ha commentato, a chi mi ha twittato il suo affetto, alle e-mail, dolci carezze virtuali. we are a family. E grazie a Rita dalla Chiesa, che ieri, a Forum, ha salutato topolone – al minuto 29)

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101 Responses to “Storia di un cane.”

  1. Marco Says:

    Ho pianto come una fontana…che bellissima storia e che bella persona che sei tu.

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