Quando sento che ho bisogno di scrivere, ma i sentimenti sono ingarbugliati e la matassa appare senza inizio e senza fine, mi aiuto con Arisa. Una canzone qualsiasi, apro Spotify, tanti titoli raccontano pezzi di me, relazioni, mancate o finite. E inizio a mettere a fuoco il mio stato d’animo e a tradurlo in parole. Con questo post, inauguro una serie di racconti sulle persone che ho incontrato, recentemente. Che mi hanno fatto sorridere. O mi hanno deluso. It’s life.

Sono tante le parole che non ci siamo detti. E continueremo a farlo, probabilmente. Forse non ci parleremo mai più. Non ci (ri)vedremo. Chissà. Ci siamo incrociati virtualmente per anni. Talvolta scritti, altre solo letti. Un like che è un “ci sono”, ma nulla di più. Poi ci siamo incrociati, dal vivo. Ed era, appunto, come se ci conoscessimo da tanto tempo. Tre volte. La prima, in cui ci siamo osservati, studiati, sorrisi, stretti la mano, promesso di riscriverci, rivederci. Promessa vaga. Forse sono quelle che sopporto di meno. A un silenzio che è ferma consapevolezza dell’impossibilità di portare avanti qualsiasi cosa che non sia una conoscenza e alla promessa di “vedersi un giorno, quando tu non lavori e io mi fermo più a lungo”, ecco, preferisco il primo. Ma tant’è. Però sei stato di parola. Perché la seconda volta ci siamo rivisti. Ci abbiamo lavorato, un po’ di mesi, ed è successo. A Roma. E in una cornice “lavorativa”, un pretesto che era un modo per ascoltarti di nuovo. L’unica possibile, per due persone così lontane ma forse simili. Con due vite diverse, e due cuori, uno occupato, l’altro in attesa di prenotazione. La seconda volta ti ho sentito vicino. E non è stato quando mi hai regalato una dedica, che è ogni volta una sorpresa, anche se – te lo confesso – me la aspettavo. Anzi. Era una delicata pretesa, un po’ come quando fai gli anni e ti aspetti gli auguri in bacheca su Facebook. Ti ho sentito vicino quando ci siamo abbracciati e, per la prima volta, ho sentito il tuo profumo. Ho accarezzato la tua guancia. Ed è stato bello, perché anche se eravamo in mezzo ad un bel po’ di persone, era come se fossimo soli. Era una parentesi, che avremmo chiuso dopo i canonici quindici, venti minuti massimo, prima del taxi, prima del ritorno, lontano da Roma (non sono i chilometri, ma le nostre galassie a essere distanti). Prima di voltare pagina, un punto, un altro breve paragrafo che si chiudeva. La terza e ultima volta, poche settimane fa. In trasferta. Per entrambi. Terreno neutro. E io avevo voglia di stringerti forte. Di dirti “mi sei mancato”, e stop. Non c’è un “dopo”, nei miei pensieri. E’ un voler aprire una parentesi, di nuovo, pur sapendo che si chiuderà, e anche presto. Perché così deve essere. Ed è giusto che sia così. Sì, accontentarsi è importante, non mi piace chi pretende tutto. Questi sono regali, che non si chiedono, si offrono, perché il cuore ha scelto di farlo. Anche quello che è occupato. Ed è stato bello, anche quella volta, stringerti, tra le pareti sgangherate di uno stanzino, stavolta al riparo dagli sguardi di chi non doveva essere pubblico, non di quell’interazione. Un abbraccio, nulla di più. Ti ho stretto forte. E sì, ho smesso e sono andato via, quando me lo ha chiesto, sapevo che era meglio così, perché quando il tempo si ferma, e ti dimentichi di quello che hai intorno, è meglio se smetti di correre. Pedale, freno, retromarcia, altra direzione. Certe emozioni non vanno decifrate, basta masticarle e digerirle. Ne ricorderemo il sapore, solo quello. Ci sono tante parole che non ci siamo detti, ma che prima o poi esploderanno, e forse allora staremo bene.

Ci sono intrecci che nascono con la morte nel cuore. E non è triste, è la vita. Quando, qualche giorno fa, ho scritto che avevo smesso da tempo di cercare un’anima (gemella), è vero. Prendo quello che la vita mi offre, nel supermarket delle emozioni e dei doni carnali, consumo, ringrazio, e vado avanti. Come faccio sempre, con questo post rifletto su quello che mi è appena successo. Non l’ho fatto con nessuno, neanche con me stesso. Scrivere un blog è essere sinceri, con se stessi, prima ancora che con gli altri.

E sì, quegli abbracci sono stati veri.

Ho iniziato a bloggare nel 2003. Ormai più di 13 anni fa. L’ho fatto tra alti e bassi, tra presenze e assenze, in un’altalena che è lo specchio fedele della vita. Chi mi conosce, sa anche quali sono alcuni dei precetti che ho sempre seguito. E uno di questi è che mai nulla è stato scritto perché “andava fatto” o per pressioni di terzi o perché altrimenti i contatti sarebbero calati e amenità di questo tipo tanto care ad alcuni colleghi blogger. Insomma: ho sempre aperto e scritto sul blog quando ne avevo voglia. E quando questa voglia non c’era, il blog non si aggiornava. Stop. Così è successo stavolta. Sto ancora ragionando sul motivo, e una risposta credo non ci sia. O forse sì. Qualche mese fa, complici anche gli impegni di lavoro, sono stato risucchiato dall’esperienza di apeRIVER, che ormai considero un’altra forma di comunicazione con il mondo esterno. Che non coinvolge solo alcuni lettori di questo blog (che rappresentano una comunità internazionale, mentre l’aperitivo ha una vocazione locale). Una comunicazione che mi soddisfa, e che mi ha dato l’opportunità, in questi mesi, di conoscere tanti talenti e persone stimolanti. Sì, non è solo un aperitivo (un appuntamento, va detto, che mi ha portato più emozioni che soldi, visto che la nostra linea è quella di chiudere con zero perdite, destinando i ricavi a chi si esibisce e ai professionisti che ci aiutano), ma è anche un’occasione di incontro: e non mi riferisco al pubblico (davvero caloroso e unico), ma anche a chi si è esibito sui nostri palchi. Le esperienze al Gay Village, prima, e al Padova Pride Village, poi, sono state cariche di emozioni. Che un piccolo aperitivo – perché questo lo ritengo – possa arrivare a calcare palchi così importanti, e dopo appena una stagione invernale, mi riempie di orgoglio. Ma tornando a noi, al blog, a queste pagine: ho avuto poco da dire, qui. La mia vita è rimasta sostanzialmente quella. Il lavoro, la singletudine, il cazzeggio virtuale, una ricerca di un’anima gemella che si è fondamentalmente fermata. Già. Arriva un momento in cui ci si inizia a guardare indietro, e ci rende conto che di emozioni la vita me ne ha regalate davvero tante. E anche di amori, cinque, tutti intensi, straordinari, sofferti. E, quindi, come dire, posso anche dire che sto. Il blog è qui, ogni tanto leggo i commenti, sfoglio qualche pagina andata. Aggiorno Instagram, quello sì, è più facile raccontarsi in scatti. Twitter lo sento abbastanza morto, con quel suo essere ancora strumento autoreferenziale per gli amanti dell’onanismo egocentrico.

Comunque, questo post è per rispondere alle email e ai messaggi di quanti mi chiedevano che fine avessi fatto. River c’è, sta bene, solo che ha scelto, adesso, di comunicare con altri strumenti. Tornerò a scrivere qui, prima o poi, non c’è nessuna chiusura: un blog è un libro aperto, dove la fine è sancita solo dalla morte. E quel paragrafo non sarò io a scriverlo.

A presto blog.

 photo antantide.jpg

C’era una volta la connessione internet che gracchiava, quella che impiegava una decina di secondi prima di partire. E tu guardavi lo schermo grande e grosso del tuo pc, che da lì a poco sarebbe diventato rovente. Era il 1999, Los Angeles era alle spalle, vivevo da solo, in una casa sfitta di mia nonna. Il computer era bianco, non ricordo la marca, forse qualche brand collegato alla Olivetti. Ero abbonato a tin.it e la prima community che frequentai fu proprio quella ad essa collegata: Atlantide. Era nata un anno prima, nel 1998. Ricordo le stanze tematiche, le finestre che si aprivano con una lentezza imbarazzante, i crash del programma, le prime discussioni. C’era un sistema di messaggeria istantanea, si chiamava C6: credo fosse il primo made in Italy. Era abbastanza facile. Lo usavo insieme ad Icq, che però mi dava meno soddisfazioni, essendo più internazionale. Per un periodo feci anche parte degli animatori di Atlantide: zero retribuzione, ma soltanto l’abbonamento gratuito a tin.it. Ma avevamo tutti uno speciale nome (atlantis) che ci differenziava dagli altri e, quindi, mi accontentavo. Candidarsi per diventare Atlantis era facile: si doveva rispondere a delle domande e inviarle al capo degli animatori, tal Pippicalze. Il mio nick, ovviamente, era River. C’erano otto stanze tematiche: quelle suddivise in base all’età, quella sui giochi, quella per flirtare. Poche distinzioni, ma molto chiare.

 photo 33_3.jpg

 photo c6.jpg photo C6_Multichat.jpg

La fase del moderatore durò poco, ero una testa calda e ricordo che un giorno, durante i confronti via email con gli altri moderatori, iniziai una inutile discussione, che si concluse con la fine di quell’esperienza. Non rimorchiai mai tramite C6. Si parlava, è vero, con degli sconosciuti, ma quasi sempre a vuoto, senza un fine preciso. Mica come oggi dove ogni chattata è persa e dove si parla solo con persone disponibili a incontrarti nell’arco di 2 ore. Eravamo pochi, alla fine i nick ricorrenti su Atlantide erano sempre quelli. Mi piaceva trovare qualcuno on-line la notte, quando finivo di studiare. Era bella l’idea di un mondo che non andava mai a dormire, sempre pronto a recepire qualche sfogo o a venire incontro alla tua voglia di perdere tempo. Ero gay, reduce da una storia d’amore, e ricordo che non c’erano stanze dedicate per il rimorchio. Anche per questo le discussioni, in quel periodo, si iniziavano sempre con “m o f”, non si scappava. Gli etero fuggivano da noi ma non viceversa. L’invio delle foto era complicato: anzi, non credo si potessero mandare su C6. C’era la lista nera, perché il blocco ce l’abbiamo avuto sempre nel Dna.

 photo Cattura_5.jpg

Chissà che fine hanno fatto i nick di quegli anni. Non ne ricordo nessuno in particolare. E il web, in fondo, è così. Incontri intensi, spesso rapidi, destinati ad essere dimenticati dopo qualche clic.

 photo Loredana-Bertegrave-535x300.jpg

Qualche giorno fa è partita la campagna virale del GayVillage, che è partita da una delle “accuse” mosse da una fetta della comunità Glbt: da quella definizione di “eteroVillage” adottata da molti per sminuire questo villaggio aperto a tutti. Anche agli etero. Io faccio mia quella di “Single Village”: dal punto di vista sentimentale, il Parco del Ninfeo non ha portato bene. Ma chissà. Sarà la quindicesima edizione, e al timone ci sarà sempre Vladimir Luxuria, che ormai pare essere diventata insostituibile. Si parte il primo giugno, per una ragione molto semplice: l’anno scorso, con il prolungamento verso la fine di settembre, ci si è resi conto che faceva un po’ freddino. Meglio partire prima, quindi. Nel cast ci sono stati alcuni cambiamenti, il corpo di ballo, in pratica, sarà unico per tutte le serate. Dal punto di vista musicale, non si potrà prescindere da alcuni dj divenuti ormai di casa qui: oltre a Brezet, che è un po’ il faro delle notti pop, ci saranno Mr Mads e Mattia Matthew (sempre nella sala pop). Tra gli accordi chiusi in queste ore, quello con Loredana Bertè: terrà un live il 23 luglio. L’unico a Roma. E i fan sicuramente apprezzeranno. C’è anche una trattativa in corso con i The Pills, ma si deve ancora arrivare ad un’intesa.

 photo 12923365_10153996994873614_4421515777504718661_n.jpg

Ci sarà anche un’altra novità, intorno alla metà di giugno, che riguarda il mondo riveriano. Ma per scaramanzia se ne parla tra un po’ :)

Bentornato GayVillage.

 photo 22_6.jpg

Arrivi nella mia vita con un commento. Abbastanza ininfluente. E’ sulla pagina di apeRIVER. Non lo faccio sempre, ma quell’immagine di profilo con il ring mi spinge a farlo. Qualche intreccio con i pugili mi ha fatto apprezzare la categoria di questi bestioni, spesso buoni dentro. Professione: studente universitario. Con l’hobby del pugilato. Non hai tue foto di profilo, solo una in cui ti hanno taggato. Un braccio tatuato, occhi chiari, biondo, sembri alto. E, soprattutto, sei massiccio. Rispondo al commento. E poi trasferisco la discussione in privato. Sei simpatico. Un po’ pazzo, penso. Entriamo subito in confidenza. E, così, sabato scorso decidiamo di vederci. Tu sei pigro. Ti definisci orso, io aggiungo tigre in cattività. Ti sei appena lasciato con la ragazza. Negli ultimi cinque anni hai avuto due storie: una di quattro anni e una di sei mesi. Ora sei single. Un eterosessuale single. Mi ricordi subito #coinquilinoetero. Per i modi un po’ distratti, l’approccio da coccolone sbadato, ma anche per la curiosità che ti porta verso di me. Ti vengo a prendere a Piramide, anche se odi prendere la metro e mi spieghi che quando esci con le ragazze sono loro a venirti a prenderti. Divah. Ammetti pure di esserlo, “più di me”. Sull’altezza non mi ero sbagliato: 1.95. Magro, ma le braccia grandi, il petto pure. Indossi Vans, jeans strappati, una t-shirt con il petto scollato. Neanche un pelo. All’inizio non mi guardi negli occhi. E’ una timidezza mista a diffidenza, credo. A tavola – solita piazza San Cosimato, dagli Spaghettari – ti sciogli. E mi inizi a raccontare pezzi della tua vita. Sei figlio unico. Figlio di un papà gay. Nato con una maternità surrogata, una ventina di anni fa. Hai attraversato periodi bui, molto bui, cose di cui non hai parlato quasi a nessuno, neanche a tuo padre. E ne parli a me. Negli ultimi cinque anni la tua vita è stata dettata dalle fidanzate. Roma la conosci pochissimo, perché quando uscivi, ti portavano sempre negli stessi posti. E così non sei mai stato all’Isola Tiberina, dove ovviamente ti porto. E come #coinquilinoetero mi stupisci quando appoggi la tua mano intorno al mio collo, sulla spalla, o quando la infili nel mio braccio, passeggiando tra la gente. Più mi parli e più ti percepisco come un leone ferito, dalla vita. Una persona che ancora deve capire che direzione prendere, e con chi. Con le donne hai un rapporto strano, esclusivamente fisico. Mi spieghi che sono sempre loro a fare il primo passo, che ti scrivono su Facebook, che tu non le cerchi. E che se ti vogliono, ti concedi. Zero testa, solo fisicità. Che è un po’ il motivo per il quale le tue ex ti hanno lasciato. Sull’erba ti accarezzo la caviglia, e tu non la ritiri. Il sole ci bacia, ti lamenti perché fa troppo caldo. Dici che sudi. Ma profumi. Sento il tuo odore, naturale. Ti riporto a casa. Da quel giorno, contatti quotidiani su Whatsapp, tra università e palestra. Le tue giornate sono abbastanza ripetitive, studio e ring. La sera non ami uscire. E quando hai qualche tresca, preferisci portarla a casa. Sei pigro, ma giovedì sera mi proponi di rivederci. Venerdì sera. In centro. Destinazione piazza Navona. Passeggiamo. Stavolta indossi le Allstar. E i fantasmini, ovvio. Camminiamo e mi appoggi sempre la tua mano sulla spalla. Qualche volta mi spintoni, e mi ricorda quando cercavamo, per giocare, il contatto fisico con il compagno etero di scuola che altrimenti non avremmo mai potuto sfiorare. Torniamo all’isola Tiberina. Qualcuno passeggia, anche se è l’una di notte. Mi racconti altri pezzi di te, il collage prende corpo, illumini le parti più buie del tuo passato, anche recente. Di amici nei hai pochi, proprio perché sei sempre stato concentrato su queste due storie. Ed è mentre parliamo che ti abbraccio. Prima mi appoggio con la testa sulla spalla. Tu non ti ritiri. E’ allora che ti stringo forte. E tu resti immobile, all’inizio. Poi ricambi. Mi stringi forte. Sento i muscoli delle tue braccia che si irrigidiscono. La gente passa, ma a te non importa nulla. Importa più a me, pensa. Non mi faccio molte domande sugli abbracci, che presto diventano carezze e morsi. Sì, ti mordo il braccio tatuato. E tu mi lasci fare. Non voglio baciarti, non ci penso. Mi accontento di appoggiare la testa sulle tue gambe e di stringerti, forte.

Ti riporto a casa. Ti accarezzo la gambe. Tu qualche volta appoggia la tua mano sulla mia, e io la stringo. Ci salutiamo. Il sabato è il giorno delle ragazze, delle visite, mi dici. E’ strano, non provo nessuna gelosia verso quei corpi usati randomicamente. Anzi. Penso che sia uno strumento per dare a te la possibilità di passare del tempo con me, serenamente. Sono tante le parole che non ci diciamo e che non ci diremo, ma mi hai reso felice, di nuovo.

Benvenuto #pugilebiondo

 photo 12923387_1702766433325319_8668996575646657511_n.jpg

Le mie sembrano parole di circostanza. Insomma: come potrei parlare male della serata che organizzo? E, invece, chi mi conosce sa che tutto quello che scrivo, su queste pagine virtuali, nasce da un moto spontaneo e sincero. Perché se dovessi scrivere delle cose che non provo, chiuderei questo blog e via. Ieri, per la prima volta da quando siamo arrivati da Marmo, c’erano sole e caldo. Già. Dopo tre giovedì di diluvio universale (e Sanremo), quello di ieri è stato di nuovo “normale”. E il giardino di questa ex marmeria a piazzale del Verano si è riempito in fretta: fino all’una di notte è stato pieno di persone che sono venute perché ci conoscevano o perché volevano capire cosa diavolo fosse questo apeRIVER. Ed erano lì anche per ascoltare i nostri talenti ospiti: Machella, Andrea Maestrelli (al suo secondo live con noi) e Diego Conti. E non saprei descrivere le emozioni che ho provato quando Maestrelli e Conti hanno cantato “Holden”, mentre dietro scorrevano le immagini di River Phoenix nell’omaggio di James Franco (“My own private River”) proiettato in loop tutta la serata. Tanta sorpresa, poi, quando il cast di “Siamo tutti gay” ci ha regalato una pillola del loro spettacolo tra i tavoli. Applausi per tutti, davvero. A tutti abbiamo offerto i nostri soliti lecca lecca, per mano dei riverboys: due nuovi. Altri ne cerchiamo: mi piace l’idea di questi #gnocchi a rotazione. A breve tutte le foto della serata saranno sulla pagina Facebook di apeRIVER.

 photo 12938255_1702766416658654_3250445986745119386_n.jpg photo 12400994_10208802134907842_2361822541544277114_n.jpg

Andrea Maestrelli canta Holden e dietro River Phoenix #riverphoenix #live #concert #aperiver #music #cuteguys #holden

Un video pubblicato da River (@riverblog) in data:

E giovedì prossimo (il 7) torniamo. Con una data speciale. Un tributo a Jeff Buckley. Quattro anni dopo la scomparsa di River Phoenix (1993, River; 1997, Jeff), quella di questo cantante, risucchiato dalle acque di un fiume maledetto nel Mississipi. Tre giovani cantanti – 60 anni in tre – reinterpreranno l’album Grace. Tre canzoni a testa. Emozioni per tutti. E poi, una performance speciale firmata da Giovanni Franci: Fabio Vasco in scena con un pezzo di “Matteo Diciannove, Quattordici”.

 photo IMG-20160331-WA0098.jpg

Grazie di nuovo, a tutt*.

 photo shorts.jpg

Parliamo di quei pantaloncini.

Amavo il Frank Matano di una volta. Quello degli scherzi telefonici su Youtube. Poi, con la tv, come spesso accade, questi ragazzetti made in social si perdono. Vogliono crescere e, invece, fanno passi indietro. Che è un po’ quello che è accaduto a Frank, che pare essere precipitato nella spirale della satira più becera, alla “I soliti idioti”, con la serie “Mago Matano”. L’ex disturbatore telefonico, in pratica, è un mago che interviene nelle situazioni più insolite. C’è il nipote disoccupato che vuole comprarsi un iPhone: il nonno non gli dà i soldi perché la pensione è bassa, così Mago Matano arriva, uccide il nonno e porta il nipote dal notaio per vedere il contenuto dell’eredità del parente defunto (un iPhone appunto). In un altro episodio, ancora più brutto, Mago Matano aiuta una ragazzina adolescente a tornare a “fare la zoccola” (testuale) sui social. Perché si sa, le ragazzine quello fanno (almeno secondo i maschilisti).

Davvero non sono riuscito a ridere, neanche un po’. E non voglio credere che questa comicità così becera e intrisa di luoghi comuni, oggi, possa davvero piacere.

 photo 3610157617432.jpg

Dopo la pausa per le festività pasquali, torniamo in pista giovedì 31. Sempre da Marmo, ovviamente, dove ci sentiamo sempre di più a casa nostra. Questo nuovo appuntamento, che sarà dedicato al giovane cantautorato, vedrà un graditissimo ritorno: quello di Andrea Maestrelli (detto anche #occhiblu), in arrivo da Empoli appositamente per il pubblico di apeRIVER. La sua performance, ovviamente dal vivo, ci aveva molto colpiti, qualche mese fa. E così abbiamo deciso di chiedergli di tornare (e grazie alla Rusty Records). Ricordiamo che Andrea – ragazzo dal cuore d’oro – ha vinto il premio Lunezia con quel gioiello di canzone di “Holden”. Oggi è in promozione con il suo primo album: “E’ arrivato Remo”. Andrea, che gioca anche nella Nazionale cantanti, sarà accompagnato dal giovanissimo Diego Conti, che ha partecipato all’ultimo brano sanremese del rapper Clementino, per il quale ha suonato le chitarre. Sul palco salirà poi Machella, ex concorrente di XFactor e voce di programmi radiofonici come “Interviste Cantate” su Radio2 oppure “Un Giorno da Pecora”. Molteplici le sue presenze anche al “Festival di Castrocaro”; ha vinto il Premio Daolio con il singolo “Invisibile”. Lo scorso febbraio ha aperto il concerto dei Nomadi.

 photo Machella.jpg

Nella sezione Palco Aperto, momento dedicato all’intrattenimento romano ed ai talenti emergenti (P.s. chi volesse proporsi, può farlo, tramite la pagina di apeRIVER), siamo felici di ospitare i ragazzi di “Siamo Tutti Gay“, spettacolo diretto dalla regista Lucilla Lupaioli, in scena già dalla scorsa stagione teatrale e che continua a collezionare repliche ed apprezzamenti. Il cast ci regalerà una piccola performance, studiata per noi (mentre loro saranno in scena fino al 5 aprile al teatro Lo Spazio).

Ci si vede il 31 marzo. L’ingresso, come sempre, è gratuito :)

 photo jeff-buckley-you-and-i-album-cover-brani-inediti.jpg

Jeff Buckley se n’è andato nel 1997. Quattro anni dopo River Phoenix. Qualche giorno fa, è uscito un nuovo album postumo, dal titolo “You and I”. Dieci tracce, quasi tutte mixate nel 1993, e totalmente inedite. Sono state riscoperte negli archivi Sony Music durante le ricerche per il 20esimo anniversario dell’album-capolavoro “Grace”. In “You and I”, Jeff presta la sua voce a una serie di cover: Bob Dylan (“Just Like a Woman”); Sylvester Stewart (“Everyday People,” interpretata da Sly & the Family Stone); Joe Green (“Don’t Let the Sun Catch You Cryin’,” interpretata da Louis Jordan, Ray Charles e altri); Bob Telson (“Calling You,” interpretata da Jevetta Steele per il film Bagdad Café del 1987); Morrissey e Johnny Marr (“The Boy with the Thorn in His Side” e “I Know It’s Over,” interpretata dagli Smiths); Booker T. Washington “Bukka” White (“Poor Boy Long Way from Home,” da una registrazione del 1939 di John Lomax) e John Paul Jones/Jimmy Page/Robert Plant (“Night Flight,” interpretata dai Led Zeppelin). In aggiunta alle cover, due tracce originali: la primissima versione mai registrata di “Grace” e “Dream of You and I”.

Condivido “I know it’s over” che rimane, per me, la colonna sonora dei nostri amori finiti, degli addii, dei capitoli chiusi. Emozionante.

 photo 22_5.jpg

A Fiumicino, dentro Parco Leonardo, un river-lettore (che ringrazio) ha pizzicato un commesso di  H&M che sembrava essere un po’ barzotto. O, in alternativa, ben messo. E noi gli facciamo anche i complimenti per la scelta delle scarpe.

Read the rest of this entry »

 photo WeekendPoster.jpg

Ne hanno parlato tutti, qualcuno anche a sproposito. E come faccio sempre, non ho letto una singola recensione di questo film osannato dal mondo Glbt. Non leggo le recensioni, perché penso che ognuno abbia il suo modo diverso di vivere un film e, quindi, un parere terzo non fa altro che alterare la nostra percezione naturale di quella data storia. Ora che ci penso, il fatto che sia ritornato al cinema rappresenta un po’ un evento. Da quando è finita la storia con Allstarboy – agosto 2011 – ci sono andato una sola volta (con un mezzo architetto, andammo piazza della Repubblica, il “nostro” cinema, e mai decisione fu sbagliata). E mi fa senso anche solo scriverlo. Con Allstarboy andavamo una o due volte a settimana e, quindi, non sono mai riuscito a superare il trauma dell’interruzione di quell’abitudine. Di quella e di molte altre, ovviamente. Torno al cinema con un ragazzo, vicino di casa, conosciuto qualche settimana fa su Facebook. Mi ha mandato prima un “poke” (roba di cui avevo dimenticato l’esistenza), e poi mi ha scritto un messaggio un po’ in stile Grindr. Altezza spropositata – siamo sul metro e 95 – capelli rasati, studente (te pare…) e, soprattutto, appassionato di cinema. Sabato scorso, alla serata “Poppe” (my first time, e quanto mi sono divertito…), ci siamo baciati in pista e poi altre volte da me, a casa. Zero sesso, solo coccole. Lo sento più come amico, ma chissà. Comunque, vado con lui, via delle Quattro Fontane. Non so di cosa parli il film, niente di niente. Ho intuito che si tratta di una storia di amore. Mi ci vuole poco a capire che, in realtà, è un po’ la storia della mia vita recente. E non solo dopo Allstarboy.

Weekend è la storia di due ragazzi, uno emancipato, l’altro no, uno dolce, l’altro più aggressivo, che si incontrano, in un locale dove non si va per discutere d’arte o d’amore, ma dove ci si scambia sguardi di intesa anche nei cessi. Un locale da rimorchio. Si conoscono lì e tra i due nasce qualcosa, subito. Quell’alchimia che porta due persone a volersi rivedere, subito. Che è un po’ la dinamica che caratterizza tanti miei rapporti recenti, dal bacio in su. I due dormono insieme, fanno persino colazione insieme, con lui che porta il caffè caldo all’altro (primo segnale che c’è un’intesa, niente fuga dopo l’orgasmo), parlano e decidono di incontrarsi di nuovo, quel giorno stesso. A metà film la rivelazione: uno dei due deve partire, dopo 36 ore, per l’America. Sostituisci America con Torino o Madrid o (…) e l’identificazione è pressoché totale. Il film è il racconto di un amore a tempo, della clessidra capovolta dove i granelli sono i baci e gli orgasmi che i due si concedono, prima di dirsi addio. Il rapporto cresce, ora dopo ora, aumentano le confidenze, i due cercano di farsi un riassunto delle puntate precedenti, in fretta, e ci riescono. Parentesi cocainomane (un vero peccato macchiare una storia d’amore con quella polvere bianca che, per fortuna, viene ignorata dalla stragrande maggioranza di noi) e poi, infine, l’ultima notte insieme, l’ultimo risveglio. Si salutano in stazione – e questo è un piccolo colpo di scena, quando uno dei due decide di raggiungerlo, senza avvisarlo. La fine è quella che ho vissuto n volte, si intuisce dall’inizio, non spoilero nulla. La fine è vita.

 photo Immagine.png

Guardo negli occhi lo spagnolo che ho conosciuto stamattina. E’ qui con la famiglia, una decina di persone (madre, padre, fratelli, nonni) fino a mercoledì. Lo guardo mentre gli tengo la mano, dopo che abbiamo fatto all’amore. Ci siamo visti a Largo Argentina, ero rimasto colpito dall’altezza, il ragazzo, studente pure lui, è mingherlino. Barbetta, collabora con un sito internet spagnolo, scrive di politica, si interessa di arte. Parliamo di lavoro – il suo inglese non è il top, ma riusciamo a capirci – e ci abbracciamo, come se ci conoscessimo da tanto tempo. Cinque tatuaggi. Alcuni pianeti colorati sul braccio (in onore a un gruppo spagnolo, Los Planetas), uno sul petto e un’altro sul fianco. Mani belle, curate, piccole, ma forti. E uno sguardo deciso, con quegli occhi neri in cui mi sono perso dopo il secondo bacio. Gli scatto delle foto, le carico su Instagram davanti a lui, la cosa sembra fargli piacere. Mi chiede come mai non faccia il dj, visto che in Spagna tanti blogger gay lavorano nel mondo della notte. Bah. Mi accontento di aver messo su un aperitivo, lo invito, so che non verrà, ma chissà. E’ single e, anzi, si lamenta del fatto che non riesca a trovare un fidanzato. “Come me”, gli faccio notare, e ridiamo, anche se poi gli avrei voluto dire “e allora rimani, no?”. Ma si sa, Madrid rimane scomoda, nonostante la Ryanair. Lo saluto a Corso Vittorio Emanuele, dietro al suo hotel. Faccio per salutarlo con un bacio sulla guancia, lui mi prende e me lo dà in bocca. Forse ci rivedremo domani, prima della sua partenza.

Quanti “forse” ho dovuto digerire, quanti baci ho dato appoggiandoli sull’incertezza di un futuro che mi ha – finora – sempre allontanato dall’oggetto delle mie attenzioni, quanti Weekend di coccole e baci, prima di dirci addio.

E sì, continuerò ad essere così, a rincorrere un sogno e ad andare a sbattere, perché soltanto emozionandomi sento di essere vivo. Prima o poi, tanto, lo spiccheremo il volo, insieme.

Gente da metropolitana.

March 16th, 2016

 photo subway3.jpg

Incontri che non capita mai di fare a Roma. Siamo tra Londra e New York.

Read the rest of this entry »